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Io e te
(1) Il viaggio
Le mie stanze
(41) Assenze d'esistenza
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(58)
Raccolta: Le mie stanze
Farisch
Incipit d’autore II edizione
(Introduzione di Paolo Di Paolo)
“Si è appena svegliata e aprendo gli occhi dimentica di essere in ferie. Guarda la sveglia, la mette a fuoco, per un istante teme che sia tardi. Poi ricorda. Decide che farà colazione al bar. Si lava, si veste in fretta. È una giornata strana, il tempo potrebbe cambiare da un momento all'altro. Ordina il suo caffè, si siede a un tavolo appartato, da cui non distingue le parole degli altri. Solo un fittissimo, uniforme ronzio. Getta un'occhiata distratta al giornale, le sembra di sapere già tutto. Ma quanto sono vecchie queste notizie? Sfoglia veloce, in cerca delle pagine di cronaca. La tazzina resta sospesa a mezz'aria. In una fotografia le è sembrato di vedere un volto somigliante al suo. Lo fissa più a fondo, il cuore sembra già impazzito. Legge il titolo, sillaba per sillaba. Riguarda lei.”
S’avvampa di un fuoco invisibile al circostante, la incenerisce in un attimo. Un falò quella sedia, alla quale si sente legata mani e piedi, come una strega al palo del rogo acceso dai purificatori. Si sente putrida, indegna, reietta, pur essendo candida d’anima, fino all’invisibilità. Devo andarmene, subito, immediatamente. Si guarda intorno angosciata, spera che nessuno la riconosca, che la notizia non sia stata letta da chi la circonda. Tira giù dal capo gli occhiali da sole, sfila quelli da vista e inforca l’oscurità delle lenti, come fosse un lungo mantello nero sotto il quale scomparire. Scioglie i capelli, ripiega il giornale e lo infila in borsa, raccoglie cellulare e sigarette, poi chiede il conto, paga e s’allontana frettolosamente. La via si rabbuia. Non ci sono più alberi, né case, si è dissolto nel grigiore del passato ogni contorno del presente, e scorre agli occhi come nebbia. I passi volano la terra, non le sembra neanche di toccare il selciato. Raggiunge l’auto, dimena la mano nella borsa, rovista, affonda, rimuove ogni cosa… accendino, sigarette, fazzoletti, penna, rossetto… accidenti tutto, ha acciuffato tutto tranne le chiavi, ma dove sono? Le ho perdute. Le ho perdute, come la testa, come la spensieratezza, come la gioia, come la vita… perse, come me stessa, che non so più chi sono. Quella donna non sono io lo capite? Quella donna è Miliarna Sciraf non sono io. Vorrebbe gridarlo a tutti e non può. Eppure era amore, era soltanto amore, portato al dito, rannicchiato e stretto, dentro una fascetta d’oro. Che ne sapeva lei che in quel sentimento c’era stipata la morte? Solo da ubriachi si può raccontare la realtà, la sobrietà sotto tortura non riuscirebbe a dire la verità. Lo ha cancellato quel ricordo, quel dolore, per sopravvivere a se stessa, agli eventi, alle circostanze di questa insolita esistenza. Gli è toccato uno strano ruolo da interpretare, in un copione mal scritto… chissà da chi. Le piacerebbe dare un nome al regista della sua vita, vorrebbe dirgliene quattro schiaffeggiandolo di pianto. Ma che ti ho fatto bastardo? Perché ti accanisci contro di me in questo modo? Lasciami in pace, ridammi la vita, quella mia, quella solo mia… io non sono Miliarna. Sono nata con il mio doppio, trent’anni fa. Il mio contrario mi ha seguita come un rimprovero, passo dopo passo, in tutti gli attimi della vita. Lei di classe, io insignificante, lei spigliata, io timida, lei disinibita, io complessata. Costretta a guardare, riflessa allo specchio, l’identità che non ero, obbligata ad osservare le mie sembianze descritte di nefandezze su pezzi di carta divorati dall’avidità di occhi alla ricerca di storie che non paiono vere e, prive di umanità, sembrano solo romanzi. Non posso odiare il mio sangue, lo seminerei alla terra io stessa, in preda al dolore ed alla rabbia, ma non posso rinnegare l’altra me. E’ impossibile privarmi del bene che le voglio. Ti sei presa tutto il buono Miliarna. Le carezze e le coccole di mamma e papà, le sere in festa con gli amori che erano anche i miei, il primo ballo, il primo bacio, il primo uomo, il primo regalo, il primo lavoro. Ti sei presa anche l’amore eterno con il figlio che volevo, ed ora mi lasci sola, per la prima volta nella vita, a guardarmi in uno specchio che non riflette che me stessa, chiusa dentro quest’anello che non ho la forza di buttare. Mi lasci l’eredità di non saper reggere il confronto con la tua vita spregiudicata ed intensa, piena di emozioni che non proverò mai. Dovrò portarmi addosso il dolore che non hai mai sentito, farne mia la pena che il mondo infliggerà, perché sono la sorella di una assassina. Le ha trovate le chiavi, le infila nella serratura dell’auto, ha un eterno momento d’esitazione, abitato dal pensiero di saltare in aria nell’attimo in cui aprirà lo sportello. Ha un diluvio di lacrime imprigionato negli occhi, ed un terrore che la spinge a dire addio alla vita. Sei pronta Farisch… sei pronta a lasciare la vita? Salutala dai. Da oggi, ogni attimo, è da vivere come il suo ultimo atto. La morte chiama morte e gli scagnozzi del tuo ex marito assassinato per mano di tua sorella vogliono vendetta. Lei vive protetta, tu, invece, dovrai sopravvivere da latitante. Non è una bella prospettiva aver paura di morire in ogni modo, in ogni attimo del giorno e della notte, quindi? Dai aprila questa porta, togliti la curiosità di incontrarla quella verità che tutti temono, la sola donna che non conosce il significato della parola pietà. Non piangere Farisch. Se morrai saranno dolore e lacrime risparmiate. Apri la portiera e falla finita. Non è successo nulla Farisch, sei ancora viva. Nessun fragore di fiamme ti ha seminata in brandelli, ora devi solo mettere in moto la macchina, ce la puoi fare Farisch, che ti importa di morire? Non lasci nulla di buono a piangerti, nulla di cui rammaricarsi di non poter più vivere. Guardati Farisch, volta gli occhi allo specchietto, stavolta te lo devi dire, non puoi tacerlo… dannazione guardati… hai le labbra pallide di paura, dagli un poco di rossetto Farisch, lasciagli il rosso del tuo cuore sul viso della vita. Dalle un bacio. Sei bella Farisch, troppo bella per morire… click.
Oh si, piangi Farisch… ora puoi farlo!
Falle uscire come preghiere di gratitudine
quelle lacrime cancellate agli occhi …
Sei viva Farisch,
viva come mai prima.
Allontanati più che puoi
dal passato, dal presente,
dalle paure vere,
da quelle che non hanno ragione d’essere,
sono solo pensieri, figli del terrore,
sposo di una fantasia senza logica,
-priva di ragione- è stata addestrata
alla creazione dell’impossibile.
Un viaggio! Sono in ferie… devo fare un viaggio! Andare in un posto che toglie il pensiero. Uno di quei luoghi dove la spiritualità della natura ripulisce l’anima dalle zozzure della materia e fa riemergere alla coscienza tutta la bellezza del vivere. Si, ma dove si trova questo paradiso, quale è il suo nome? India… quiete, armonia, donne colorate e bimbi sorridenti… voglio andare in India, devo andare in India. La macchina scorre di velocità le strade, le case e gli uomini di una società che non ha più alcun valore per Farisch. Le sembra di essere nata ora, di non averne conoscenza. Non sa più parlare, non comprende il suo pensiero, ormai privo di concetti, è divenuto il raccoglitore automatico delle immagini che rappresentano un mondo che non è più il suo, ignoto… sconosciuto, estraneo.
Pochi chilometri di vuoto, una distanza insignificante, percorsa con eterna incoscienza, pervasa di sola speranza: riconoscere i tratti di un luogo che hai chiamato casa per anni. Il viale è deserto. Sembrano spariti tutti. Abbandoni l’auto avvolta da una assenza, una distrazione ancestrale, hai le movenze di un angelo disperso ai sentieri dell’inferno. Non cerchi le chiavi del portone, sono attaccate al portachiavi dell’auto, come quelle di casa. Non hai chiuso neanche l’auto, l’hai lasciata aperta al mondo, a tutto il suo male. Apri il cancello d’ingresso, non lo accompagni con la mano per richiuderlo, come fai sempre, per timore che estranei male intenzionati possano addentrarsi furtivamente. Si richiude da solo, lentamente, gli concedi il tempo di un accesso… che ti segua pure, se vuole, ti faccia pure del male, tanto tu non ci sei, non prenderà che il tuo corpo, l’anima è già lontana, in salvo, nell’India che a breve raggiungerai. Dovresti aver paura anche di schiudere l’uscio di casa, non ne hai. Una freddezza che assomiglia al distacco guida ogni passo, orienta ogni sguardo, muove ogni arto alla sua azione. Piano, quietamente, non hai angosce, non hai fretta. Devi ricordare dove hai stipato la valigia. Non la cerchi. Vai in cucina, apri il frigo, ti versi dell’acqua nel bicchiere, poi ti siedi in salotto affondando la poltrona di mezzo. Osservi la stanza nel suo insieme, metti a fuoco qualche particolare. Un quadro, una fotografia, un soprammobile, un cuscino, un fiore nel vaso. Dalla porta socchiusa intravvedi un triangolo di letto, l’anta dell’armadio, ed il tuo volto stampato nel suo specchio. Sei tu quella donna Farisch! Quella chioma lunga e nera, quegli occhi grandi e verdi come una foresta, quel naso tondo e piccolo, quelle labbra grandi e rosse sono la tua faccia stanca e sola. Non c’è più nulla di te tra queste mura, ci sei solo tu, dentro di te. La valigia è nel ripiano alto dell’armadio, accosti la poltroncina, vi monti su, afferri la maniglia e con gesto deciso e forte la lanci sul letto. Spalanchi tutte le porte dell’armadio, apri tutti i cassetti del comò e scegli le vesti, gli intimi, le scarpe. Ad uno ad uno, ognuno fa il suo volo verso il letto e ricoprendo la scatola da viaggio formano una collinetta. Poi tocca alla stanza da bagno essere depredata di spazzolino, dentifricio, saponi, creme, trucchi. Hai disseppellito dagli arredi l’indispensabile, tutto è ammucchiato in quel rettangolo di letto. Lo pieghi con cura e lo riponi in valigia. Ecco è chiusa. Hai preso tutto. Ti pare d’aver preso tutto. Hai saccheggiato la tua esistenza come farebbe un ladro, ne hai lascito i segni ovunque. Hai inciso di incuria ogni angolo della casa, devi solo decidere se vuoi ricordarla al tuo futuro avvolta in questo disordine, oppure nei suoi tratti antichi, disegnata nella precisa linearità di cose incastonate alla funzionalità e all’ordine della ragione.
Devi deciderti in fretta Farisch. Hai la vita segnata dall’ombra del tempo. E’ alle tue spalle, ti segue allargandosi a dismisura sul terreno del passato, facendone un baratro. Ad ogni passo in avanti divora il dietro, sprofondando i giorni che sono stati, nel pozzo di un ricordo senza luci e colori. Sbrigati Farisch, deciditi? Che fotografia lascerai al futuro, se mai ci sarà? L’ordine dell’anima, o il disordine dell’esistenza? Più forte di te il bisogno dello spirito di esprimersi senza parole, nelle azioni. Ti fa camminare la casa in lungo e in largo, priva di volontà, assente di scelta, muove gli occhi e le mani. Tutto ritrova il suo spazio, il luogo dove chiudere il cerchio, dove vivere e morire. Lei, ha dato esequie ad ogni frammento del te che non serve al futuro. Ad ogni sogno e desiderio che sei stata, ad ogni ragione e scelta errata, ad ogni bisogno soddisfatto e rinunciato, a tutte ha dato un loculo, ed ora che ti volti, la vedi la tua tomba, ordinata, pulita, sistemata, in posa per la foto ricordo. Togli quei fiori dal vaso Farisch, buttali! Senza di te marciranno d’aridità, seccandosi al buio dell’assenza. No, anzi, portali via con te.
L’ultimo sguardo ha il sapore amaro di un addio. Asciuga il pianto della sconfitta, estremo gradino di un podio che ti appunta al petto la medaglia della sopravvissuta. Non lo credevi possibile questo finale, nell’andare veloce di cose da fare, distratto da un bene sbagliato. Mai, nel fantasticare del pensiero, in quel tuo prevedere razionale dei sogni improbabili, avresti pensato di chiudere questa parte di vita in una fuga dalla morte, con una corsa senza fiatone, per raggiungere il traguardo di una nuova vita. Chiudi la porta dolcemente, lentamente, ascolta con attenzione il rumore che fa una vita che finisce, alcune volte è grido, spesso è un silenzio, ora è solo la voce di una chiave che chiude il ricordo.
Nulla ha peso nella fuga. Hai messo l’infinito in una scatola frenata a fatica dalle mani, mentre rotola di speranza la scala in discesa del domani che avrai. La macchina è lì che ti aspetta. Lasciala ad attendere, prendi un taxi. Cigno blu Signora, sarà lì tra cinque minuti. Mentre riagganci emani un respiro profondo, a bocca aperta. Hai tirato dentro tutto il mondo e cacciandolo fuori ti senti leggera, libera. Cigno blu Signora, dove la porto? All’aeroporto… di corsa.
Non hanno forme le cose che sfrecciano fuori dal finestrino, sono ombre distorte nell’essenza, da una corsa a piedi fermi. Il taxista è stato bravissimo, ti sembra di essere appena salita sull’auto, ed è già ora di abbandonarla, di dimenticarla, come tutto il resto. E’ una folla l’umanità che ti circonda, un mare nel quale ti sembra di affogare. E’ bello il vestito che hai indossato per il viaggio, chissà perché lo hai scelto rosso. Il colore è forza per l’anima e tu ne hai bisogno. Una fila interminabile di grigi e neri, di terra bruciata e bianchi, di blu e scritte in lingue infinite, creano il caos dell’incomprensione, mentre il tuo rosso spiega, a piccoli passi, come la morte abbia imparato ad indossare la vita per non riflettersi allo specchio di insopportabili verità. Sei già davanti al banco, è il tuo turno, e non hai ancora pensato alla destinazione da raggiungere. India, ma in qual dove dell’India? Signora… Signora, mi dica! Tocca a lei! Oh, mi scusi, ero distratta in pensieri. Io, … io vorrei prendere il primo volo per l’India, non importa la città, basta che sia il primo. Il prossimo volo per l’India fa scalo nella città di Madurai Signora, si trova a sud nello stato di Tamil Nadu, e parte tra circa mezzora, le può andar bene? Oh si, benissimo grazie. Sballata di pensieri in un silenzio che è vuoto di parole ti sussurri alla mente il nome della rinascita… Madurai… Madurai. Sembra come una preghiera, una supplica di speranza, l’invocazione di una misericordia dimenticata… e l’avrai Farisch, sarà tua quella grazia e quella pace dove ogni dolore, ogni lacrima sarà oltrepassata.
(Introduzione di Paolo Di Paolo)
“Si è appena svegliata e aprendo gli occhi dimentica di essere in ferie. Guarda la sveglia, la mette a fuoco, per un istante teme che sia tardi. Poi ricorda. Decide che farà colazione al bar. Si lava, si veste in fretta. È una giornata strana, il tempo potrebbe cambiare da un momento all'altro. Ordina il suo caffè, si siede a un tavolo appartato, da cui non distingue le parole degli altri. Solo un fittissimo, uniforme ronzio. Getta un'occhiata distratta al giornale, le sembra di sapere già tutto. Ma quanto sono vecchie queste notizie? Sfoglia veloce, in cerca delle pagine di cronaca. La tazzina resta sospesa a mezz'aria. In una fotografia le è sembrato di vedere un volto somigliante al suo. Lo fissa più a fondo, il cuore sembra già impazzito. Legge il titolo, sillaba per sillaba. Riguarda lei.”
S’avvampa di un fuoco invisibile al circostante, la incenerisce in un attimo. Un falò quella sedia, alla quale si sente legata mani e piedi, come una strega al palo del rogo acceso dai purificatori. Si sente putrida, indegna, reietta, pur essendo candida d’anima, fino all’invisibilità. Devo andarmene, subito, immediatamente. Si guarda intorno angosciata, spera che nessuno la riconosca, che la notizia non sia stata letta da chi la circonda. Tira giù dal capo gli occhiali da sole, sfila quelli da vista e inforca l’oscurità delle lenti, come fosse un lungo mantello nero sotto il quale scomparire. Scioglie i capelli, ripiega il giornale e lo infila in borsa, raccoglie cellulare e sigarette, poi chiede il conto, paga e s’allontana frettolosamente. La via si rabbuia. Non ci sono più alberi, né case, si è dissolto nel grigiore del passato ogni contorno del presente, e scorre agli occhi come nebbia. I passi volano la terra, non le sembra neanche di toccare il selciato. Raggiunge l’auto, dimena la mano nella borsa, rovista, affonda, rimuove ogni cosa… accendino, sigarette, fazzoletti, penna, rossetto… accidenti tutto, ha acciuffato tutto tranne le chiavi, ma dove sono? Le ho perdute. Le ho perdute, come la testa, come la spensieratezza, come la gioia, come la vita… perse, come me stessa, che non so più chi sono. Quella donna non sono io lo capite? Quella donna è Miliarna Sciraf non sono io. Vorrebbe gridarlo a tutti e non può. Eppure era amore, era soltanto amore, portato al dito, rannicchiato e stretto, dentro una fascetta d’oro. Che ne sapeva lei che in quel sentimento c’era stipata la morte? Solo da ubriachi si può raccontare la realtà, la sobrietà sotto tortura non riuscirebbe a dire la verità. Lo ha cancellato quel ricordo, quel dolore, per sopravvivere a se stessa, agli eventi, alle circostanze di questa insolita esistenza. Gli è toccato uno strano ruolo da interpretare, in un copione mal scritto… chissà da chi. Le piacerebbe dare un nome al regista della sua vita, vorrebbe dirgliene quattro schiaffeggiandolo di pianto. Ma che ti ho fatto bastardo? Perché ti accanisci contro di me in questo modo? Lasciami in pace, ridammi la vita, quella mia, quella solo mia… io non sono Miliarna. Sono nata con il mio doppio, trent’anni fa. Il mio contrario mi ha seguita come un rimprovero, passo dopo passo, in tutti gli attimi della vita. Lei di classe, io insignificante, lei spigliata, io timida, lei disinibita, io complessata. Costretta a guardare, riflessa allo specchio, l’identità che non ero, obbligata ad osservare le mie sembianze descritte di nefandezze su pezzi di carta divorati dall’avidità di occhi alla ricerca di storie che non paiono vere e, prive di umanità, sembrano solo romanzi. Non posso odiare il mio sangue, lo seminerei alla terra io stessa, in preda al dolore ed alla rabbia, ma non posso rinnegare l’altra me. E’ impossibile privarmi del bene che le voglio. Ti sei presa tutto il buono Miliarna. Le carezze e le coccole di mamma e papà, le sere in festa con gli amori che erano anche i miei, il primo ballo, il primo bacio, il primo uomo, il primo regalo, il primo lavoro. Ti sei presa anche l’amore eterno con il figlio che volevo, ed ora mi lasci sola, per la prima volta nella vita, a guardarmi in uno specchio che non riflette che me stessa, chiusa dentro quest’anello che non ho la forza di buttare. Mi lasci l’eredità di non saper reggere il confronto con la tua vita spregiudicata ed intensa, piena di emozioni che non proverò mai. Dovrò portarmi addosso il dolore che non hai mai sentito, farne mia la pena che il mondo infliggerà, perché sono la sorella di una assassina. Le ha trovate le chiavi, le infila nella serratura dell’auto, ha un eterno momento d’esitazione, abitato dal pensiero di saltare in aria nell’attimo in cui aprirà lo sportello. Ha un diluvio di lacrime imprigionato negli occhi, ed un terrore che la spinge a dire addio alla vita. Sei pronta Farisch… sei pronta a lasciare la vita? Salutala dai. Da oggi, ogni attimo, è da vivere come il suo ultimo atto. La morte chiama morte e gli scagnozzi del tuo ex marito assassinato per mano di tua sorella vogliono vendetta. Lei vive protetta, tu, invece, dovrai sopravvivere da latitante. Non è una bella prospettiva aver paura di morire in ogni modo, in ogni attimo del giorno e della notte, quindi? Dai aprila questa porta, togliti la curiosità di incontrarla quella verità che tutti temono, la sola donna che non conosce il significato della parola pietà. Non piangere Farisch. Se morrai saranno dolore e lacrime risparmiate. Apri la portiera e falla finita. Non è successo nulla Farisch, sei ancora viva. Nessun fragore di fiamme ti ha seminata in brandelli, ora devi solo mettere in moto la macchina, ce la puoi fare Farisch, che ti importa di morire? Non lasci nulla di buono a piangerti, nulla di cui rammaricarsi di non poter più vivere. Guardati Farisch, volta gli occhi allo specchietto, stavolta te lo devi dire, non puoi tacerlo… dannazione guardati… hai le labbra pallide di paura, dagli un poco di rossetto Farisch, lasciagli il rosso del tuo cuore sul viso della vita. Dalle un bacio. Sei bella Farisch, troppo bella per morire… click.
Oh si, piangi Farisch… ora puoi farlo!
Falle uscire come preghiere di gratitudine
quelle lacrime cancellate agli occhi …
Sei viva Farisch,
viva come mai prima.
Allontanati più che puoi
dal passato, dal presente,
dalle paure vere,
da quelle che non hanno ragione d’essere,
sono solo pensieri, figli del terrore,
sposo di una fantasia senza logica,
-priva di ragione- è stata addestrata
alla creazione dell’impossibile.
Un viaggio! Sono in ferie… devo fare un viaggio! Andare in un posto che toglie il pensiero. Uno di quei luoghi dove la spiritualità della natura ripulisce l’anima dalle zozzure della materia e fa riemergere alla coscienza tutta la bellezza del vivere. Si, ma dove si trova questo paradiso, quale è il suo nome? India… quiete, armonia, donne colorate e bimbi sorridenti… voglio andare in India, devo andare in India. La macchina scorre di velocità le strade, le case e gli uomini di una società che non ha più alcun valore per Farisch. Le sembra di essere nata ora, di non averne conoscenza. Non sa più parlare, non comprende il suo pensiero, ormai privo di concetti, è divenuto il raccoglitore automatico delle immagini che rappresentano un mondo che non è più il suo, ignoto… sconosciuto, estraneo.
Pochi chilometri di vuoto, una distanza insignificante, percorsa con eterna incoscienza, pervasa di sola speranza: riconoscere i tratti di un luogo che hai chiamato casa per anni. Il viale è deserto. Sembrano spariti tutti. Abbandoni l’auto avvolta da una assenza, una distrazione ancestrale, hai le movenze di un angelo disperso ai sentieri dell’inferno. Non cerchi le chiavi del portone, sono attaccate al portachiavi dell’auto, come quelle di casa. Non hai chiuso neanche l’auto, l’hai lasciata aperta al mondo, a tutto il suo male. Apri il cancello d’ingresso, non lo accompagni con la mano per richiuderlo, come fai sempre, per timore che estranei male intenzionati possano addentrarsi furtivamente. Si richiude da solo, lentamente, gli concedi il tempo di un accesso… che ti segua pure, se vuole, ti faccia pure del male, tanto tu non ci sei, non prenderà che il tuo corpo, l’anima è già lontana, in salvo, nell’India che a breve raggiungerai. Dovresti aver paura anche di schiudere l’uscio di casa, non ne hai. Una freddezza che assomiglia al distacco guida ogni passo, orienta ogni sguardo, muove ogni arto alla sua azione. Piano, quietamente, non hai angosce, non hai fretta. Devi ricordare dove hai stipato la valigia. Non la cerchi. Vai in cucina, apri il frigo, ti versi dell’acqua nel bicchiere, poi ti siedi in salotto affondando la poltrona di mezzo. Osservi la stanza nel suo insieme, metti a fuoco qualche particolare. Un quadro, una fotografia, un soprammobile, un cuscino, un fiore nel vaso. Dalla porta socchiusa intravvedi un triangolo di letto, l’anta dell’armadio, ed il tuo volto stampato nel suo specchio. Sei tu quella donna Farisch! Quella chioma lunga e nera, quegli occhi grandi e verdi come una foresta, quel naso tondo e piccolo, quelle labbra grandi e rosse sono la tua faccia stanca e sola. Non c’è più nulla di te tra queste mura, ci sei solo tu, dentro di te. La valigia è nel ripiano alto dell’armadio, accosti la poltroncina, vi monti su, afferri la maniglia e con gesto deciso e forte la lanci sul letto. Spalanchi tutte le porte dell’armadio, apri tutti i cassetti del comò e scegli le vesti, gli intimi, le scarpe. Ad uno ad uno, ognuno fa il suo volo verso il letto e ricoprendo la scatola da viaggio formano una collinetta. Poi tocca alla stanza da bagno essere depredata di spazzolino, dentifricio, saponi, creme, trucchi. Hai disseppellito dagli arredi l’indispensabile, tutto è ammucchiato in quel rettangolo di letto. Lo pieghi con cura e lo riponi in valigia. Ecco è chiusa. Hai preso tutto. Ti pare d’aver preso tutto. Hai saccheggiato la tua esistenza come farebbe un ladro, ne hai lascito i segni ovunque. Hai inciso di incuria ogni angolo della casa, devi solo decidere se vuoi ricordarla al tuo futuro avvolta in questo disordine, oppure nei suoi tratti antichi, disegnata nella precisa linearità di cose incastonate alla funzionalità e all’ordine della ragione.
Devi deciderti in fretta Farisch. Hai la vita segnata dall’ombra del tempo. E’ alle tue spalle, ti segue allargandosi a dismisura sul terreno del passato, facendone un baratro. Ad ogni passo in avanti divora il dietro, sprofondando i giorni che sono stati, nel pozzo di un ricordo senza luci e colori. Sbrigati Farisch, deciditi? Che fotografia lascerai al futuro, se mai ci sarà? L’ordine dell’anima, o il disordine dell’esistenza? Più forte di te il bisogno dello spirito di esprimersi senza parole, nelle azioni. Ti fa camminare la casa in lungo e in largo, priva di volontà, assente di scelta, muove gli occhi e le mani. Tutto ritrova il suo spazio, il luogo dove chiudere il cerchio, dove vivere e morire. Lei, ha dato esequie ad ogni frammento del te che non serve al futuro. Ad ogni sogno e desiderio che sei stata, ad ogni ragione e scelta errata, ad ogni bisogno soddisfatto e rinunciato, a tutte ha dato un loculo, ed ora che ti volti, la vedi la tua tomba, ordinata, pulita, sistemata, in posa per la foto ricordo. Togli quei fiori dal vaso Farisch, buttali! Senza di te marciranno d’aridità, seccandosi al buio dell’assenza. No, anzi, portali via con te.
L’ultimo sguardo ha il sapore amaro di un addio. Asciuga il pianto della sconfitta, estremo gradino di un podio che ti appunta al petto la medaglia della sopravvissuta. Non lo credevi possibile questo finale, nell’andare veloce di cose da fare, distratto da un bene sbagliato. Mai, nel fantasticare del pensiero, in quel tuo prevedere razionale dei sogni improbabili, avresti pensato di chiudere questa parte di vita in una fuga dalla morte, con una corsa senza fiatone, per raggiungere il traguardo di una nuova vita. Chiudi la porta dolcemente, lentamente, ascolta con attenzione il rumore che fa una vita che finisce, alcune volte è grido, spesso è un silenzio, ora è solo la voce di una chiave che chiude il ricordo.
Nulla ha peso nella fuga. Hai messo l’infinito in una scatola frenata a fatica dalle mani, mentre rotola di speranza la scala in discesa del domani che avrai. La macchina è lì che ti aspetta. Lasciala ad attendere, prendi un taxi. Cigno blu Signora, sarà lì tra cinque minuti. Mentre riagganci emani un respiro profondo, a bocca aperta. Hai tirato dentro tutto il mondo e cacciandolo fuori ti senti leggera, libera. Cigno blu Signora, dove la porto? All’aeroporto… di corsa.
Non hanno forme le cose che sfrecciano fuori dal finestrino, sono ombre distorte nell’essenza, da una corsa a piedi fermi. Il taxista è stato bravissimo, ti sembra di essere appena salita sull’auto, ed è già ora di abbandonarla, di dimenticarla, come tutto il resto. E’ una folla l’umanità che ti circonda, un mare nel quale ti sembra di affogare. E’ bello il vestito che hai indossato per il viaggio, chissà perché lo hai scelto rosso. Il colore è forza per l’anima e tu ne hai bisogno. Una fila interminabile di grigi e neri, di terra bruciata e bianchi, di blu e scritte in lingue infinite, creano il caos dell’incomprensione, mentre il tuo rosso spiega, a piccoli passi, come la morte abbia imparato ad indossare la vita per non riflettersi allo specchio di insopportabili verità. Sei già davanti al banco, è il tuo turno, e non hai ancora pensato alla destinazione da raggiungere. India, ma in qual dove dell’India? Signora… Signora, mi dica! Tocca a lei! Oh, mi scusi, ero distratta in pensieri. Io, … io vorrei prendere il primo volo per l’India, non importa la città, basta che sia il primo. Il prossimo volo per l’India fa scalo nella città di Madurai Signora, si trova a sud nello stato di Tamil Nadu, e parte tra circa mezzora, le può andar bene? Oh si, benissimo grazie. Sballata di pensieri in un silenzio che è vuoto di parole ti sussurri alla mente il nome della rinascita… Madurai… Madurai. Sembra come una preghiera, una supplica di speranza, l’invocazione di una misericordia dimenticata… e l’avrai Farisch, sarà tua quella grazia e quella pace dove ogni dolore, ogni lacrima sarà oltrepassata.
Pubblicato: domenica 3 luglio 2011
Alle ore: 08:22:14
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