Prose

Io e te
(1) Il viaggio
Le mie stanze
(41) Assenze d'esistenza
Raccolta: Le mie stanze
Sei tu
Ti ho visto nella notte, tanto tempo fa, venisti a prendere la mano di una bimba impaurita dalla vita con, addosso, i lividi di quel suo dolore infame.
La portasti per le vie del tempo in un sogno che le parve incubo, e vide tutto quello che c’era da vedere degli uomini, le spiegasti tutto ciò che può contenere la loro anima, ogni pensiero di bene e male che può produrre la loro mente, le svelasti l’angoscia dei disastri che la ragione può realizzare, i dolori che l’anima può sopportare.
Ti vidi come un’ombra grande e buona, passammo, stretti nelle mani, l’uno accanto all’altro, per le vie di città distrutte, camminammo su macerie alte come montagne che avevano alberi fatti di arti umani seppelliti dalla terra, innaffiati dal loro stesso sangue, udimmo lamenti atroci che mi facevano stringere più forte la tua mano.
Andammo insieme, più oltre del dove si poteva andare, dove, dalle finestre, uomini e donne rovesciavano escrementi su di noi.
Ne fummo pieni nei panni e sulle carni, urina e feci ad infestarci l’anima, e mi dicesti: “Ti faranno questo, ma tu resisti, portati pulita avanti nella vita, qualunque cosa accada non farti mai sporcare dentro.”
E camminammo ancora, camminammo tanto, ed ebbi come l’impressione che vi fosse recintata l’eternità in quella notte, fino a quando mutarono le piogge su di noi e, per le stesse vie, dalle stesse case cadeva oro a rivestirci gli abiti.
Ero piccola, non mi ricordo gli anni, ma quel mattino mi svegliai senza alcun dolore dentro, ero serena, sentivo nelle ossa la forza di quel padre che ovunque vai non ti abbandona mai.
Ne ho traversate di strade fetide in tutti questi anni, e ne son trascorsi di giorni miei nuotati in un mare di escrementi.
Quanti ne ha sentiti l’anima di dolori: una infinità.
Eppure, pur nella più disperata lontananza, non mi sono mai sentita sola a combattere le avversità.
Ti ho riconosciuto, in qualche notte della vita, da adolescente, da giovane, da donna, quando sei venuto a consolarmi di bene e, mentre mi facevi sorridere di gioia, sentivo le tue mani umide di lacrime mie.
Mi asciugavi, mi riscaldavi, ripulivi ogni angolino di questo cencio d’anima, cancellavi il ricordo, il dolore, portavi via con te ogni risentimento, tutto l’odio che può nascere in un cuore a seguito delle violenze umane e di quelle sue ingiustificabili ingiustizie.
Te ne andavi al mattino, in quell’attimo in cui la notte abbraccia il sole di tenera stanchezza, porgendo alle braccia dei suoi raggi tutto il peso del destino umano e, con un impalpabile bacio, mi lasciavi la forza del tuo amore perché io potessi continuare a camminare le vie di questo mondo senza paura, da sola, senza averti accanto nella luce dei giorni.
Ed ho sbagliato tante volte in questi cinquant’anni, ho creduto di vederti nell’uno o nell’altro uomo, ma non eri tu.
Quante volte mi sono presa la tristezza del cuore nelle mani, ed ho estirpato ad una ad una le schegge della delusione, dell’afflizione, e quanti inganni di pensieri e di parole ho recitato a me stessa con gli occhi chiusi, fissi al muro, davanti ad uno specchio, per riuscire a trovare il corpo della speranza per curarlo, perché vivesse ancora dentro me, e portarmi pulita, avanti nella vita, come un tempo mi dicesti tu.
Passavano i miei giorni, finiti di dolore, e le mie notti sterili di eternità.
Scorrevano lenti e veloci, fatti di guai e di quiete, di ricchezza e povertà, di paure e di lotte, ed io ti sentivo, ti vedevo in ogni attimo nella pelle di donna che mi trascinavo addosso, eri il meglio di me stessa, la mia parte intelligente, sensibile, colta, lottatrice, impavida, estremista, e capivo che tutto il bello di questo mio esistere lo facevi tu.
All’uscio del mezzo secolo ci sono giunta esausta, così rattrappita di dolore che non sentivo più nulla, priva di sensi e di ragioni, vuota di speranze e sentimenti… E sei tornato tu: in carne e ossa.
Non sei più un’ombra grande e buona, ora sei un volto stanco e sorridente che ha negli occhi, tutta intatta, la forza della vita.
E’ ancora incolume e strabordante quell’amore antico che ti galoppa il cuore e il corpo fino a condurti nuovamente a me.
Sei venuto ad aggiustarmi i giorni, a controllare che fossi in grado di navigare il resto delle acque in questo mare d’esistenza.
Sei tornato per farmi comprendere che c’é ancora gioia da aspettarsi e altrettanto dolore da masticare, che devo ancora dare credito ai sogni, a quelle fantasie che levano dal viso la stanchezza dell’esistere, che devo continuare a sorridere quando lacrimo, a piangere quando rido.
Sei qui a spiegare, seduto alla cattedra della vita come un caro maestro al suo ultimo giorno d’insegnamento: “Ricorda, in una piccola poesia vi è l’universo!”

L’ho sempre pianto, nelle notti mie, l’amore tuo che mancava, e ancora ne ho bisogno per sorridere.

Oggi guardo questo mondo e questa vita mia che è sempre stata tua, e ci vedo l’ingombro dell’attesa passata, ci scorgo la lontananza del presente, l’inconsolabile ombra di un pianto che è mancanza di te nel futuro, dove non vi sarà rassegnazione per l’assenza dell’amore perfetto e puro che ci fece camminare insieme per le vie del tempo oltrepassando i limiti dei corpi e dei sensi.

Sai Maestro… mi sento ancora stupida come da bambina, e temo, di me stessa, gli errori.

Mi capita, qualche volta, di dubitare di quel che odo dentro, di quello che trasmetti, e resto ferma a chiedermi: Sei tu? Sei tu?
Maestro, correggimi se sto sbagliando ancora, dimmi che sei tu.

Non ho dubbi dopo la notte trascorsa in quell’amore dove mi sono dissolta tutta, dandoti ogni spazio di me.
Perché questo resto: spazio, tra rabbie e incomprensioni, in una realtà distruttiva e confusa di parole che non capiscono il sentimento.
Mi sento sbaglio perpetuo, mani e labbra che non camminano il retto sentiero del tuo vivere, e non so raddrizzarmi ai tuoi passi, perdo il sincrono dei piedi e, con esso, l’armonia delle ali.
E’ forte la tua passione, rabbiosa di protezione verso il fiore che porti nel petto: il mio.
Mi spacchi di urla timpani e tempie, anima e corpo, fantasia e ragione, e sono divisa tra l’immaginazione di un bene notturno e il dolore di un male diurno.

Se l’amare è questo… lo voglio!

Nascondiamoci bene alle parole, agli occhi degli altri, imbalsamiamoci i corpi col vuoto dei sensi, dimentichiamo le convenzioni del mondo e facciamoci aria e cielo, terra e mare, vuoto e silenzio dell’universo, solo così scopriremo che l’amore riesce a fare a meno di tutto, anche di un insieme di carne composto dal noi.
Togliamoci le voci in quell’ora del mattino e del pomeriggio, cancelliamo le parole sul nascere quando passano dal pensiero alla penna, facciamole mute, non per gli occhi, non per le orecchie, tacitiamo il dire dell’anima e restiamo ciò che siamo: il nulla della diversità corporea che viviamo.

Pensiamo pure d’averlo annientato l’amore.
Crediamoci, a quell’idea che lo presenta morto nelle assenze di ogni sua manifestazione.
Illudiamoci che, privo delle sue azioni, lui non esista più.

Poi, fermiamoci all’ascolto di noi, ci meraviglieremo, quando ci accorgeremo di non sussistere più e che, della nostra umana materia, il vivente rimasto è solamente lui.

… non ho più dubbi: “Sei tu”.
Pubblicato: lunedì 12 settembre 2011
Alle ore: 22:02:58
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