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Raccolta: Le mie stanze
Voltati Dio
Sono qui Dio, ti parlo da tutta la vita ormai, e mi sembra di divagare, di menare il can per l’aia, come si suole dire.
Rimango sgomenta anch’io davanti all’insensatezza di questi pensieri, vorrei non seguirli, non assecondarli, vorrei non dargli spago e reprimerli, per raccontarti solo di me, di questa esistenza trascorsa negli anni di affanni silenziosi.
Di me sconvolta, dissolta, terminata e riavvolta da ragioni senza ragioni, da scopi senza fini, da utopiche mete senza traguardi.
Vorrei dirti di me e di come questo corpo si è dato in pasto ad essa.
Ma da che lembo afferrare il lacero lenzuolo dove il tutto della vita ha dormito?
Quale sia l’angolo ancora intatto e candido proprio non saprei, mi sento come un essere che ha traversato tutti i mari del mondo, che ha valicato tutti i monti della terra, che ha scandagliato tutte le profondità degli uomini, che ha ascoltato tutte le menzogne dell’universo, che ha scritto tutte le verità del paradiso.
Si, mi sento così!
Stanca, come chi non crede più nella vita. Sola, come chi non confida più negli uomini. Rassegnata come chi non vive più di speranze, e questo mi addolora profondamente.
Riverso nella condizione che consente il solo esistere dei sogni in un futuro che mai sarà.
Allora, dimmi tu Dio, come si può vivere senza desiderare e progettare il futuro?
Troppo impegno richiede la sua laboriosa ricostruzione.
Esige determinazione degli obiettivi da perseguire. Un indefesso lavoro volto a ristabilire gli equilibri tra il già vissuto e il da viversi, ed io sono fragile al momento, non basto a me stessa, per questo sono qui a pregarti di sostenermi, ad implorarti di farmi da guida, a supplicarti di aiutarmi con quel tuo fare intriso di serenità, con il quale spero di potermi percepire nuovamente come donna fra le tante che mantengono in vita il mondo.
Sono qui a domandarti di impegnare ogni tua risorsa, di seguirmi in questo viaggio, per operare insieme la cancellazione di quelle diversità delle quali la mia vita si è macchiata tramite il compimento di atti volontari che hanno rovesciato fango sul presente, insudiciato il passato, seppellito il futuro della mia essenza.
Sono una donna educata alla cura della casa e delle persone che da lei dipendono e, ben sai, che una brava massaia, quando all’interno delle mura domestiche regna sovrano il caos, la prima cosa che pensa di dover fare è quella di riordinare e spolverare ogni angolo di quella dimora.
Io mi sono guardata dentro per molti anni e, mentre facevo conoscenza con le cose di cui ero fatta, ne analizzavo l’utilità nel presente.
Ovviamente puoi intuire la fine riservata a tutte le esperienze, emozioni e ricordi ritenuti consunti, laceri, e non più utilizzabili: spariti tutti.
Alcuni accartocciati, altri strappati, altri dolcemente ripiegati, ma a tutti è toccato il medesimo destino, tutti senza discriminazioni e distinzioni sono andati a morire nella discarica del tempo, ed io, mentre operavo tale raccapricciante atto, pensavo: “Meglio che stiate a imputridire qui, piuttosto che a rendere sporca, maleodorante e fetida la mia attuale identità”.
Si, Dio, è come pensi, sono stata un mostro!
Questo mio tremendo, ingiustificabile agire, non si fermava davanti a nulla. Neanche quando la ferrea volontà di supertecnologica massaia dell’anima, bardata di ogni genere di diavoleria creata per favorirmi nell’intento, s’imbatteva in quei ricordi docili e affettuosi che prima mi facevano sorridere e poi a tradimento, come un pugnale che ti fora la schiena, riempivano gli occhi di pianto ed il cuore di dolore.
Via, via tutto!
Tu, tu e tu, ed anche tu.
Tutti, senza favoritismi, fuori dalla mia dimora.
Andate tutti a morire lontano da me, io ho deciso di vivere!
Potrei dirti che, se potessi tornare indietro nel tempo, non farei più la supermassaia, ed invece no, non mi sento di dirti questo.
Ora, che sono lontana dal tempo del dolore, e sono quel che sono proprio grazie a quel pulirmi l'anima frenetico ed ossessivo, mi rendo conto che la folle massaia ha avuto il coraggio di fare il lavoro sporco che la viltà mia impediva.
Ha avuto la caparbietà, la testardaggine e la forza di assumersi le responsabilità che io mai avrei accettato.
Si è fatta carico di uccidere una parte di me che non aveva più possibilità di vivere, per salvare quella che, invece, aveva l’obbligo di farlo e non ne trovava la volontà.
Si, dovrei ringraziarla per tutto ciò che è stata in grado di operare, il suo lavoro è stato provvidenziale!
Non fare quell’espressione, so cosa ti stai domandando: “Se tutto è andato bene, se sei soddisfatta del risultato raggiunto attraverso il lavoro introspettivo e selettivo svolto dalla tua supertecnologica massaia, perché ora sei qui a chiedermi aiuto?”.
La risposta è semplice Dio, forse anche banale.
Hai presente il verificarsi di un naufragio?
Una nave imbarca acqua e sta per affondare.
Il capitano, sbraitando e dimenandosi, urla a tutti di alleggerirla, di gettare in mare le cose inutili, di liberarsi di ogni oggetto personale che non è indispensabile alla sopravvivenza.
Tutti obbediscono.
Nel frattempo si ottiene il tempo sufficiente per otturare la falla.
Un paio di loro esperti e coraggiosi, in situazione estrema, risolvono il problema.
La barca non rischia più l’affondamento.
Il timore e la prospettiva della morte si allontana dall’equipaggio.
Lentamente, il cuore di ogni uomo, ritorna al suo battito regolare e, la mente, che pochi attimi prima aveva un solo bisogno e produceva un solo pensiero, quello di non morire, ora, ha nuovamente spazio per accogliere tutta l’interezza di se stessi.
Immagina questa scena Dio.
Sono tutti sul ponte.
Sudati, abbandonati al silenzio, bianchi come cenci, ancora tremano al pensiero del pericolo corso... poi, qualcuno, comincia a parlare e dice: “Accidenti ragazzi stavolta l’abbiamo scampata per un pelo!” .
Ecco, questo è l’attimo in cui tutti, uno alla volta, muovono il capo volgendolo indietro a scrutare il pezzo di mare dove hanno annegato una o più parti di sé.
Come sempre, tra i tanti, vi è un pazzo.
Un romantico, un nostalgico che, in una frazione di secondo vede scorrergli davanti il futuro della sua esistenza priva di un ricordo, vedova di un sentimento, monca di un oggetto.
Il dolore che lo invade è tanto grande, insopportabile, che smette di pensare, evita di immaginare e agisce.
Con uno scatto inconsulto s’alza, si dirige goffo e scoordinato verso il bordo della nave e poi giù nell’acqua.
Ha tanta foga di far presto che muove le braccia nuotando anche nell’aria, ancor prima che il suo corpo faccia splash a contatto con il mare. Muove il corpo fendendo quell’oceano con la velocità di un delfino e spinge il pensiero come un radar per identificare in quella immensità il suo sentimento. Lo avvista, lo raggiunge, lo afferra… ora è felice.
Alla sua anima non importa più di vivere o morire.
La sua sorte, il suo futuro è nelle mani dei suoi amici.
Adesso non gli resta altro da fare che inseguire quella nave con la speranza di udire il grido della salvezza spandersi amorevole all’azzurro.
Adesso ha un solo sogno: raggiungere il legno del salvataggio che lo porterà all’isola della vita.
Uomooooooooooo in mareeeeeeeeeeeeeeee!
Sono quel marinaio pazzo Dio!
E sto nuotando il mare della vita per ritrovare il mio sentimento!
E tu sei la voce amica che dovrà lanciare il fatidico grido... Colui che obbligherà il mondo a fermare il suo cammino e ad invertire la rotta della nave per tornare indietro a recuperare l’uomo.
Non distrarti Dio.
Non cercare altrove la sagoma di una terra ancora lontana dalle nostre profondità.
Voltati Dio.
Cercaci in queste acque torbide senza stancare lo sguardo.
Trova questa umanità ed il suo sogno e grida forte al mondo: Vitaaaaaaaaaaaaaa in mareeeeeeeeeeeeeee!
Non curarti di me, ho poco valore!
Lancia la prima cima per afferrare il sogno. Salvalo!
Non lasciare che muoia soffocato dalla stretta morsa di queste braccia disumane che non sanno più nuotare la vita.
Che impegno ti sto domandando Dio. Immane, gigantesco, mastodontico.
Ma tu lo assolverai mirabilmente. Sono certa che, con paziente e amorevole generosità, restituirai a questi corpi la dignità delle loro anime.
Rimango sgomenta anch’io davanti all’insensatezza di questi pensieri, vorrei non seguirli, non assecondarli, vorrei non dargli spago e reprimerli, per raccontarti solo di me, di questa esistenza trascorsa negli anni di affanni silenziosi.
Di me sconvolta, dissolta, terminata e riavvolta da ragioni senza ragioni, da scopi senza fini, da utopiche mete senza traguardi.
Vorrei dirti di me e di come questo corpo si è dato in pasto ad essa.
Ma da che lembo afferrare il lacero lenzuolo dove il tutto della vita ha dormito?
Quale sia l’angolo ancora intatto e candido proprio non saprei, mi sento come un essere che ha traversato tutti i mari del mondo, che ha valicato tutti i monti della terra, che ha scandagliato tutte le profondità degli uomini, che ha ascoltato tutte le menzogne dell’universo, che ha scritto tutte le verità del paradiso.
Si, mi sento così!
Stanca, come chi non crede più nella vita. Sola, come chi non confida più negli uomini. Rassegnata come chi non vive più di speranze, e questo mi addolora profondamente.
Riverso nella condizione che consente il solo esistere dei sogni in un futuro che mai sarà.
Allora, dimmi tu Dio, come si può vivere senza desiderare e progettare il futuro?
Troppo impegno richiede la sua laboriosa ricostruzione.
Esige determinazione degli obiettivi da perseguire. Un indefesso lavoro volto a ristabilire gli equilibri tra il già vissuto e il da viversi, ed io sono fragile al momento, non basto a me stessa, per questo sono qui a pregarti di sostenermi, ad implorarti di farmi da guida, a supplicarti di aiutarmi con quel tuo fare intriso di serenità, con il quale spero di potermi percepire nuovamente come donna fra le tante che mantengono in vita il mondo.
Sono qui a domandarti di impegnare ogni tua risorsa, di seguirmi in questo viaggio, per operare insieme la cancellazione di quelle diversità delle quali la mia vita si è macchiata tramite il compimento di atti volontari che hanno rovesciato fango sul presente, insudiciato il passato, seppellito il futuro della mia essenza.
Sono una donna educata alla cura della casa e delle persone che da lei dipendono e, ben sai, che una brava massaia, quando all’interno delle mura domestiche regna sovrano il caos, la prima cosa che pensa di dover fare è quella di riordinare e spolverare ogni angolo di quella dimora.
Io mi sono guardata dentro per molti anni e, mentre facevo conoscenza con le cose di cui ero fatta, ne analizzavo l’utilità nel presente.
Ovviamente puoi intuire la fine riservata a tutte le esperienze, emozioni e ricordi ritenuti consunti, laceri, e non più utilizzabili: spariti tutti.
Alcuni accartocciati, altri strappati, altri dolcemente ripiegati, ma a tutti è toccato il medesimo destino, tutti senza discriminazioni e distinzioni sono andati a morire nella discarica del tempo, ed io, mentre operavo tale raccapricciante atto, pensavo: “Meglio che stiate a imputridire qui, piuttosto che a rendere sporca, maleodorante e fetida la mia attuale identità”.
Si, Dio, è come pensi, sono stata un mostro!
Questo mio tremendo, ingiustificabile agire, non si fermava davanti a nulla. Neanche quando la ferrea volontà di supertecnologica massaia dell’anima, bardata di ogni genere di diavoleria creata per favorirmi nell’intento, s’imbatteva in quei ricordi docili e affettuosi che prima mi facevano sorridere e poi a tradimento, come un pugnale che ti fora la schiena, riempivano gli occhi di pianto ed il cuore di dolore.
Via, via tutto!
Tu, tu e tu, ed anche tu.
Tutti, senza favoritismi, fuori dalla mia dimora.
Andate tutti a morire lontano da me, io ho deciso di vivere!
Potrei dirti che, se potessi tornare indietro nel tempo, non farei più la supermassaia, ed invece no, non mi sento di dirti questo.
Ora, che sono lontana dal tempo del dolore, e sono quel che sono proprio grazie a quel pulirmi l'anima frenetico ed ossessivo, mi rendo conto che la folle massaia ha avuto il coraggio di fare il lavoro sporco che la viltà mia impediva.
Ha avuto la caparbietà, la testardaggine e la forza di assumersi le responsabilità che io mai avrei accettato.
Si è fatta carico di uccidere una parte di me che non aveva più possibilità di vivere, per salvare quella che, invece, aveva l’obbligo di farlo e non ne trovava la volontà.
Si, dovrei ringraziarla per tutto ciò che è stata in grado di operare, il suo lavoro è stato provvidenziale!
Non fare quell’espressione, so cosa ti stai domandando: “Se tutto è andato bene, se sei soddisfatta del risultato raggiunto attraverso il lavoro introspettivo e selettivo svolto dalla tua supertecnologica massaia, perché ora sei qui a chiedermi aiuto?”.
La risposta è semplice Dio, forse anche banale.
Hai presente il verificarsi di un naufragio?
Una nave imbarca acqua e sta per affondare.
Il capitano, sbraitando e dimenandosi, urla a tutti di alleggerirla, di gettare in mare le cose inutili, di liberarsi di ogni oggetto personale che non è indispensabile alla sopravvivenza.
Tutti obbediscono.
Nel frattempo si ottiene il tempo sufficiente per otturare la falla.
Un paio di loro esperti e coraggiosi, in situazione estrema, risolvono il problema.
La barca non rischia più l’affondamento.
Il timore e la prospettiva della morte si allontana dall’equipaggio.
Lentamente, il cuore di ogni uomo, ritorna al suo battito regolare e, la mente, che pochi attimi prima aveva un solo bisogno e produceva un solo pensiero, quello di non morire, ora, ha nuovamente spazio per accogliere tutta l’interezza di se stessi.
Immagina questa scena Dio.
Sono tutti sul ponte.
Sudati, abbandonati al silenzio, bianchi come cenci, ancora tremano al pensiero del pericolo corso... poi, qualcuno, comincia a parlare e dice: “Accidenti ragazzi stavolta l’abbiamo scampata per un pelo!” .
Ecco, questo è l’attimo in cui tutti, uno alla volta, muovono il capo volgendolo indietro a scrutare il pezzo di mare dove hanno annegato una o più parti di sé.
Come sempre, tra i tanti, vi è un pazzo.
Un romantico, un nostalgico che, in una frazione di secondo vede scorrergli davanti il futuro della sua esistenza priva di un ricordo, vedova di un sentimento, monca di un oggetto.
Il dolore che lo invade è tanto grande, insopportabile, che smette di pensare, evita di immaginare e agisce.
Con uno scatto inconsulto s’alza, si dirige goffo e scoordinato verso il bordo della nave e poi giù nell’acqua.
Ha tanta foga di far presto che muove le braccia nuotando anche nell’aria, ancor prima che il suo corpo faccia splash a contatto con il mare. Muove il corpo fendendo quell’oceano con la velocità di un delfino e spinge il pensiero come un radar per identificare in quella immensità il suo sentimento. Lo avvista, lo raggiunge, lo afferra… ora è felice.
Alla sua anima non importa più di vivere o morire.
La sua sorte, il suo futuro è nelle mani dei suoi amici.
Adesso non gli resta altro da fare che inseguire quella nave con la speranza di udire il grido della salvezza spandersi amorevole all’azzurro.
Adesso ha un solo sogno: raggiungere il legno del salvataggio che lo porterà all’isola della vita.
Uomooooooooooo in mareeeeeeeeeeeeeeee!
Sono quel marinaio pazzo Dio!
E sto nuotando il mare della vita per ritrovare il mio sentimento!
E tu sei la voce amica che dovrà lanciare il fatidico grido... Colui che obbligherà il mondo a fermare il suo cammino e ad invertire la rotta della nave per tornare indietro a recuperare l’uomo.
Non distrarti Dio.
Non cercare altrove la sagoma di una terra ancora lontana dalle nostre profondità.
Voltati Dio.
Cercaci in queste acque torbide senza stancare lo sguardo.
Trova questa umanità ed il suo sogno e grida forte al mondo: Vitaaaaaaaaaaaaaa in mareeeeeeeeeeeeeee!
Non curarti di me, ho poco valore!
Lancia la prima cima per afferrare il sogno. Salvalo!
Non lasciare che muoia soffocato dalla stretta morsa di queste braccia disumane che non sanno più nuotare la vita.
Che impegno ti sto domandando Dio. Immane, gigantesco, mastodontico.
Ma tu lo assolverai mirabilmente. Sono certa che, con paziente e amorevole generosità, restituirai a questi corpi la dignità delle loro anime.
Pubblicato: lunedì 23 novembre 2015
Alle ore: 21:43:14
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